1846

In una di queste mattine, dal cielo azzurro, l’aria fresca e la pace di un giorno di festa, ho immaginato me stesso da vecchio. Segaligno e caracollante, come un vecchio guardiano di faro, la faccia scavata e ossuta, la stessa con cui, tempo dopo, mi ritroveranno riverso, morto stecchito da un infarto, offrire la colazione agli ospiti del mio b&b.

Quando mai ho avuto questa idea di avere e gestire un un posto del genere?

Eccomi invece a rivestire i panni della cordialità, io, accendere la macchina del caffè, servire marmellate e meringhe verdi alla menta. Raccontare ai curiosi, quanto poco interessati, ospiti inutili aneddoti della mia vita. Ospiti che sono una giovane coppia, quelli che un tempo, ora anche, potrei avere invidiato. E che, finalmente sazi, se ne vanno ridacchiando delle mie stramberie.
Poi ho rimesso in ordine il tavolo e la cucina e sono uscito in terrazza, sento l’odore del mare, a fumare una sigaretta.
La fumo con lentezza, una dozzina di minuti. Penso che mai ho fumato nervoso. Penso che assaporo ancora il profumo del tabacco, quello della busta blu, il mio preferito. E questo minimo pensiero mi scalda per il solo fatto di non essermi mai abituato a nulla se dopo milioni di sigarette ancora avverto gli spigoli e le rotondità del gusto.
Così, in generale.
Ho le valige da sistemare, le solite. Come per viaggi che non farò mai. Sistemare come in attesa di una chiamata, una fuga, una corsa improvvisa da qualche parte.

1842

Non ho mai capito perché Nicola si ostinasse a lasciare 1cm di te, o latte, o tisana, in ogni tazza. Non ho mai capito cosa ci fosse in quel fondo da averne repulsione. Cosa c’è in quell’avanzo? Che lo lasciasse per un dopo che non è mai avvenuto? Che la tiepidezza, calcolata certamente, del liquido fosse un segnale di sazietà?
Non lo saprò mai.

1838

ho aperto la finestra alle 7. la luce era quella strana che precede l’alba. ho continuato a dormire.

poi mi sono svegliato e ho letto. mentre leggevo il sole ha cominciato a illuminare le case di fronte.

non ho pensato a nulla tranne a cosa ci fosse di più bello di quel momento.

1834

L’ipod suonava satie. Guardavo le nuvole muoversi veloci e la gente intorno e il vento in faccia. Mi sono sentito quasi felice e ho pianto. Non so esattamente il perché. C’era un senso di pace e spensieratezza nell’aria. Nella gente intorno, nell’orizzonte libero, nell’assenza di alberi.
Gli alberi. L’assenza. È questa una componente della felicità? Forse nello spazio libero, nell’assenza di forme frastagliate e caotiche.
Ecco che ritorna l’ordine. Delle cose. Di quello che abbiamo dentro, di quello che vogliamo.

1831

Mi piace vestirmi nel buio di notti insonni e camminare per le vie vuote del paese. Lo sapete.
L’altra notte, circa le due, gradi sottozero, prendo la giacca e scendo lungo il fiume su prati ghiacciati che sembra di camminare su patatine.
Poi torno sulle strade. Da lontano sento urla, avvicinandomi vedo un tizio ubriaco sbraitante. Accanto la sua ragazza, presumo. Oddio.
Lui la insulta, lei cerca di calmarlo. È alterato parecchio, bestemmie e coglioni e cazzi escono dalla sua bocca.
Gli passo accanto, lui continua incurante dello spettacolo. In un istante io e la ragazza ci incrociamo gli occhi. Un istante in cui ho cercato di dirle di mollarlo lì, quel coglione.
Poi rientro.

1824

Che ci fai sveglio a quest’ora?
Inseguo autostrade che puntano verso direzioni note.
Sarebbe meglio limitassi un po’ le brodaglie che spacci per caffè
Sarebbe meglio che arrivassi a destinazione. Prima o poi.
Ma tu hai detto una volta (citando) che “non è la meta, ma il viaggio”
Forse. Forse potrei anche fermarmi, forse potrei anche riposare o decidere che la metà è raggiunta

1821

Un bambino. Dieci anni circa. Cammina lungo la discesa, lo zaino di scuola a spalle. Con le mani disegna nell’aria. Volteggi e orizzonti, battiti di ali. Picchiate e planate.

1789

Come quando ti svegli nel tuo divano preferito (che, ok, è anche l’unico), ti alzi vai alla tv che ai bambini hai spiegato di spegnerla – definitivamente -, l’accendi e ti ributti sul divano assaporando la miglior concatenazione articolare possibile. Poi scopri che il telecomando ha le pile esaurite. Dopo esattamente trenta secondi hai le palle piene delle ottomila mosche di ogni tipo in cucina, ma sei rinco e non ti va di sprecare tempo ad ammazzarle. Apro la finestra e le faccio uscire. Una a una. Chiudo la finestra. rimetto la bilancia sul davanzale (ho una bilancia sul davanzale che mi impedisce id aprire la la finestra del tutto). Poi scopro che c’è la signora delle mosche blu pelose compiendo orbite rastremate sulle mie gonadi. Allora prendo la scatola dove c’è quel dolce che ci porta un amico dall’est. Una specie di panettone imbevuto di liquore. Buono eh. Ma dopo una settimana sembra di mangiare la spugna della doccia imbevuta di palmolive. E potrei continuare per un po’ rendendovi più logorante, se possibile, la lettura di questo blog. Le domeniche di sole mi rendono noioso, lo so.